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Non Praevalebunt

Introduzione

Antica verità perennemente attuale: “Ogni azione che accada sulla terra è in accordo con le leggi della Natura; dire: “sono stato io a farlo”, è vuota vanità”.

Ad oggi rifletto sui parallelismi e recensisco la peste durante l’attuale pandemia di Coronavirus, ridimensionata ad epidemia, sapendo di viaggiare sullo stesso terreno sdrucciolevole e provare gli stessi sentimenti che accumunavano loro, italiani rinascimentali contro il nemico invisibile e noi, italiani liquidi e apolidi.

400 anni trascorsi, stessi provvedimenti, stessa battaglia, stesse incertezze, stesse soluzioni, giustificate forse dal non avere armi generiche ma, al contrario, provvedimenti stocastici.

Parliamo di legge e caso, scienza come epistéme, che ha la conoscenza, certa e incontrovertibile, delle cause e degli effetti del divenire, ovvero quel sapere che si stabilisce su fondamenta sicure, al di sopra di ogni possibilità di dubbio attorno alle ragioni degli accadimenti. Quella scienza che riesce a stare, imponendosi, ferma, su tutto ciò che vorrebbe smuoverla e metterla in discussione, e che per questo suo stare è verità. Verità inconfutabile, riconducibile quasi ad un rito, una superstizione da cui ci si fa guidare. Ma niente è immobile, tutto si trasforma.

Inquadramento storico. Decisioni e realtà

Sin dal ritorno della peste in Europa nel ‘300, la posizione dell’Italia, come snodo commerciale e delle rotte dei viaggiatori, l’aveva esposta ripetutamente ai contagi. La pandemia di peste del 1347-51 eliminò brutalmente un quarto della popolazione europea ma fu proprio durante questi anni terribili che l’Istituto della Sanità prese corpo neiì vari stati dell’Italia settentrionale “pro conservatione sanitatis”: si trattava di un comitato di emergenza, a carattere temporaneo, paragonabile alle attuali e ormai famose task-force, ad oggi inabissate e disperse.

Poi tocco al ‘600: secolo di crisi economiche, politiche, guerre devastanti e disordini sociali. Fu il secolo più freddo e con maggiori problemi per l’alimentazione delle popolazioni italiane ed europee. In quegli anni si susseguirono carestie e pestilenze, quasi certamente perché le popolazioni, tendenzialmente denutrite, risultano essere più soggette alle malattie infettive, senza mettere in secondo piano la sporcizia dilagante e l’indigenza manifesta.

Infatti a Firenze alla carestia si accompagnò la crisi e, a queste due disgrazie, se ne accompagnò una terza: l’epidemia. Il binomio carestia-epidemia appare con tale regolare frequenza nel corso delle vicende umane che gli storici si dimostrano in genere inclini a considerarla una sequenza ineluttabile. L’argomento è presentato generalmente così: la denutrizione riduce i poteri di difesa biologi degli organismi ed i microbi ne approfittano, il che è corretto, ma è incompleto. La denutrizione riduce effettivamente i poteri biologici di difesa degli organismi umani, ma se le condizioni igienico-sanitarie ambientali sono buone, certe malattie infettive come il tifo e la peste non possono comparire. Perché esse appaiano occorre la presenza di ratti infetti, pulci infette, pidocchi infetti.

Quando capitava una carestia, contrariamente a quanto una persona dell’età industriale potrebbe aspettarsi, non erano i cittadini a correre alla campagna per procurarsi il pane, ma erano al contrario i contadini che affluivano alle città: la città sfruttava allora il suo contado molto più spietatamente di quanto le potenze cosiddette “imperialistiche” abbiano mai sfruttato le loro colonie nel XIX secolo. Il rentier cittadino spremeva il contadino lasciandogli solo il necessario per sfamarsi, così il colono del contado non aveva né risparmi né scorte.

Quando un raccolto andava male, se c’erano scorte a cui attingere, queste si trovavano per lo più in città, nei granai pubblici o nelle case dei cittadini benestanti. Inoltre, la città aveva il più delle volte possibilità di rifornirsi, tramite il commercio, da mercati lontani. Ne derivava che, in caso di carestia, si assisteva al rifluire verso la città di turbe di miserabili contadini, affamati, cenciosi e sudici, che venivano a chiedere l’elemosina e magari a morire d’inedia sui selciati e sotto i portici comunali.

L’epidemia iniziò sul finire dell’ottobre del 1620 e terminò con l’avvento dell’estate. La cosa quadra bene con quel che si sa circa la stagionalità delle epidemie (…di tifo). Quanto all’ammontare della mortalità sembra che nel giro di otto mesi la città di Firenze abbia perduto circa 3.000 anime, cifra che si riferisce alla mortalità totale e comprende cioè tutti i decessi indipendentemente dalla causa di morte, e non i soli decessi causati dal tifo: conteggio giustificabile per l’epoca in questione, curioso e abborracciato per la nostra, di epoca, ma giustificato se un’epidemia è strumentale per garantire la sopravvivenza e l’avanzare di una “nuova normalità”.

 

A cura di Silvia Toffee Calzolari

 

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